Scuotere la palma (o curare non è uccidere) -Il punto di vista di un medico sull’eutanasia
- Ariane Bilheran

- 29 dic 2022
- Tempo di lettura: 5 min
Articolo che un medico specialista ha trasmesso ad Ariane Bilheran perché lo pubblicasse sul suo sito.
Questo medico ha voluto restare anonimo, considerate le rappresaglie in corso nel mondo della medicina.
Uno dei modi più semplici per sbarazzarsi di un essere umano senza troppi sensi di colpa è pensare che esso non sia tale. Che non lo sia ancora o che non lo sia più integralmente, per qualche ragione, qualsiasi essa sia (trovarne una è facile, per giustificarsi).
Non ci sorprende che nel momento in cui assistiamo alla ricomparsa di una versione tecnicizzata del "superuomo" (il transumanesimo), contemporaneamente si individuano degli esseri umani la cui vita non è degna di essere vissuta.
In occasione di una riunione di leprologi, all’inizio degli anni 1970, la mia ingenuità di giovane medico è stata sconvolta, quando ho scoperto che in un certo paese esisteva un programma nascosto per l’eradicazione della lebbra attraverso l’eliminazione dei lebbrosi. All’epoca si trattava di una malattia considerata poco curabile e con un decorso di degradazione fisica ineluttabile. Dappertutto, i lebbrosi erano oggetto di rifiuto, compreso nelle strutture di cura e, salvo eccezioni, non potevano ricevere cure di nessun tipo, eccetto nei dispensari dedicati alla lotta contro la lebbra. In queste strutture nessuno pensava che questi pazienti non fossero degni di essere curati.
In seguito, ho svolto la specializzazione in pediatria in alcuni servizi ospedalieri universitari, nei quali eravamo costretti ad affrontare le nostre stesse difficoltà nell’accompagnamento dei pazienti che stavano morendo, così come le loro famiglie. Alleviando il dolore ed evitando l’accanimento terapeutico sapevamo che avremmo accorciato la loro vita. Era la nostra responsabilità, ma non il nostro obiettivo.
E’ nel contesto delle cure neonatali (ostetricia e neonatologia) che ci siamo trovati un’altra volta ad affrontare la questione se "una vita valga la pena di essere vissuta". Non sto parlando di accanimento terapeutico su bambini che soffrivano di gravi lesioni, ma di situazioni nelle quali di fronte alla presenza di una «anomalia» non letale del neonato ci veniva chiesto di mettere fine ai suoi giorni in un modo o nell’altro, perché la possibilità di un bambino «difettoso» era insopportabile agli occhi di certi genitori.
Oggi la questione viene, in parte, elusa, perché l’essere umano non ha alcuna esistenza ufficiale prima della nascita; strana prevenzione quella dell’eliminazione.
E’ più tardi, in tutte le strutture dedicate alle cure a lungo termine dei bambini disabili, compresi quelli con gravi disabilità multiple o colpiti da malattie degenerative che portano alla morte, che potrebbe porsi la questione di abbreviare la loro vita. In realtà, essa non si è mai posta nei trent’anni durante i quali ho lavorato in mezzo a persone che mi hanno insegnato molto, non fosse che per le «piccole vittorie» e il valore di un contatto visivo o di un abbozzo di sorriso. Con l’eccezione di un caso: nel corso di una semplice visita, una madre sola mi ha chiesto di mettere fine alla vita del figlio molto giovane e affetto da trisomia 21 senza altre patologie associate. Dopo una riflessione sofferta, aveva deciso l’affidamento in famiglia e un lavoro per se stessa e non poteva credere che chiunque si sarebbe mai occupato del figlio senza maltrattarlo, anche perché neppure lei ci era riuscita.
La cura richiede una buona dose di umiltà di fronte a situazioni che non permettono i brillanti successi terapeutici ai quali ci ha abituati la scienza da qualche decennio.
"Creole" è una bambina che ha trascorso i primi sette anni della vita nelle strutture ospedaliere e sociali della regione parigina con una diagnosi di autismo associata a un grave ritardo mentale. Al termine di questo periodo viene rimandata alla sua isola natale, perché ha raggiunto il limite di età per proseguire il soggiorno nella struttura in cui si trova. E’ un gattino selvatico che graffia e morde chiunque si avvicini. E’ impossibile farle le coccole e qualsiasi tentativo di comunicare è destinato a fallire. E’ vestita con un camice ospedaliero perché sbava e viene alimentata attraverso una sonda nasogastrica. E’ sporca. Per via della sua agitazione, dalla stanza sono stati tolti tutti i mobili, tranne un materasso. Nella sua lettera d’accompagnamento non c’è alcun progetto di vita, si mantiene in uno status quo. Malgrado questo, dopo due anni di cure pazienti e benevole, con obiettivi progressivi condivisi da una squadra di persone appartenenti a diverse categorie professionali e dalla famiglia, Creole era diventata una bambina ben vestita e pettinata affetta da una moderata deficienza intellettuale senza alcun particolare problema comportamentale. Mangiava a tavola insieme agli altri bambini e la sera tornava a casa. Cominciava anche a comunicare con qualche parola.
Riprendendo la discussione sull’eutanasia, nel suo stato iniziale, la sua vita sarebbe stata ritenuta degna di essere vissuta? Si sarebbe chiesto ai genitori, senza battere ciglio, di contribuire a questa decisione? Chi può decidere se la vita di un disabile è degna di essere vissuta? Un’istituzione amministrativa? Giudiziaria?
Passando all’altra estremità, mia suocera è deceduta a casa propria lo scorso anno, all’età di 104 anni, dopo un lento degrado intellettuale, sensoriale e fisico. Nessuno dei famigliari e dei professionisti che la assistevano, compreso il medico, che ha continuato a farle visita fino all’ultimo, l’hanno giudicata indegna delle loro cure. Le leggi in vigore hanno permesso di attenuare efficacemente le sue sofferenze e l’accompagnamento dei suoi cari ha calmato le sue paure in un clima affettivo di serenità. Una delle sue figlie che viveva con lei ha sofferto molto per la sua morte.
Cosa sarebbe successo in caso di eutanasia? Chi dice che decidere per l’eutanasia provocherà minori sofferenze affettive per i famigliari del paziente che lo accompagnano alla morte? Dovremmo proporre l’eutanasia come palliativo per l’attuale carenza delle possibilità di cura e di accompagnamento adeguato? Quali sarebbero le conseguenze di questo per i professionisti della salute, la cui missione è quella di curare?
Quale fiducia potrebbero avere i pazienti più fragili (e gli altri) nei medici?
Quanto alla prospettiva del suicidio assistito per i pazienti che soffrono di malattie psichiatriche, questa non tiene conto della variabilità e della possibilità di cura dei disturbi dell’umore, così come dell’evoluzione dei «suicidi falliti», evoluzione che non avviene sempre nel senso di una recidiva, al contrario. Non tiene conto neppure del diniego del disturbo e del rifiuto della possibilità di aiuto da parte degli stessi pazienti, uno dei sintomi principali di queste patologie. In una procedura di suicidio assistito, come lasciare alla persona la possibilità di revocare in extremis la sua decisione, in un ultimo sussulto di vita?
E’ vero che vediamo per le strade molte persone che soffrono di disturbi psicotici gravi che abbiamo rinunciato a curare, la loro aspettativa di vita è ridotta, ma non è ancora eutanasia. Ci arriveremo?
Delle lucine rosse di allerta si mettono a lampeggiare una dopo l’altra, leggendo il Giuramento di Ippocrate nella sua versione originale, versione che le Facoltà francesi sono obbligate a modificare poco a poco, per adeguarsi alle nuove leggi. E ogni volta le cure si allontanano un po’ di più.
Cosa avrebbe detto, Antigone?








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